Una rivoluzione tradita
di Javier Valenzuela (El País 17/06/2012). Traduzione di Claudia Avolio
Non c’è rivoluzione senza controrivoluzione, e di frequente la seconda finisce per vincere la posta in gioco. Il 1789 francese sfociò nel regime militarista di Napoleone e in seguito nella Restaurazione borbonica. La Francia non avrebbe avuto una repubblica democratica stabile e duratura fino a molti decenni dopo. Ora la Storia procede più in fretta e c’è da augurarsi che l’Egitto non abbia bisogno di molto tempo perché si concretizzino quelle basi di libertà, dignità e giustizia che chiedevano i manifestanti quando, nel febbraio del 2011, riuscirono a spodestare Mubarak. Tuttavia, ad oggi, le speranze di piazza Tahrir sono andate svanendo, sostituite dall’amara constatazione secondo cui i nuovi faraoni sorgeranno da una delle due forze reazionarie classiche della Valle del Nilo: militari e islamisti.
Povero Egitto… Ieri, nella seconda tornata delle sue prime elezioni presidenziali libere, doveva scegliere tra il male e il peggio: Ahmed Shafiq, ex-primo ministro di Mubarak e candidato della Giunta Militare; e Mohamed Morsi, capo del cartello dei Fratelli Musulmani. Non bisogna stupirsi se milioni di egiziani hanno preferito recarsi alle spiagge di Alessandria o sulle rive del Nilo per rinfrescarsi un po’. Chiunque sia alla fine il vincitore, Shafiq o Morsi, la cosa certa è che egli non guiderà gli obiettivi della rivoluzione democratica, quanto piuttosto una regressione verso il primato dell’ordine dato col bastone, o verso l’interpretazione più rancida della fede musulmana.
Come si è arrivati a questo? Per via della tenacia, combattività e potenza di queste due forze reazionarie (milizie e ‘barbuti’); per l’ingenuità, divisione e mancanza di risorse dei democratici di piazza Tahrir; e – diciamolo pure – per la passività degli Stati Uniti e dell’Europa. Sia per nostalgia verso un’autocrazia che gli risolveva non pochi problemi, sia perché totalmente assorbito nelle sue gravi difficoltà economico-finanziarie, l’Occidente non si è fatto coinvolgere quando è stata l’ora di dare impulso alla democrazia egiziana.
La controrivoluzione è iniziata il giorno successivo alla caduta di Mubarak, quando – felici ed esausti – i manifestanti hanno lasciato piazza Tahrir e hanno confidato nella promessa democratica della Giunta Militare che lo ha rimpiazzato. La Giunta, comandata dal maresciallo Tantawi e formata da uomini vicini a Mubarak, ha assunto il potere esecutivo e si è dedicata a spedire nelle prigioni militari migliaia di oppositori laici e democratici. Al contempo, ha convocato elezioni legislative – quelle dello scorso autunno – e presidenziali – quelle di adesso – senza che esistesse alcuna nuova Costituzione democratica.
Mentre i militari, i poliziotti, i giudici e gli imprenditori del regime mantenevano la poltrona, i Fratelli Musulmani sbancavano tra le preferenze delle legislative per quel loro fascino di gente onesta e benefattrice dei poveri, che era stata crudelmente perseguitata dal rais. C’è stato poi un momento in cui sembrava che militari e ‘barbuti’ potessero mettersi d’accordo per escludere i rivoluzionari di piazza Tahrir e spartirsi il potere. Non è stato così. Con queste presidenziali è avvenuto tra i due lo scontro frontale di treni. Scordando le promesse secondo cui non avrebbero presentato candidati, la Giunta Militare e i Fratelli Musulmani hanno messo avanti le loro pedine, Shafiq e Morsi. Questi due hanno vinto al primo turno perché, tra le altre cose, il voto di laici, democratici, socialdemocratici e islamisti di nuovo conio è stato spartito tra altri candidati.
Prima di questa seconda tornata, con una mossa autoritaria che ha un vago sentore del colpo di Stato, un tribunale dell’era Mubarak ha sciolto il Parlamento nato dalle elezioni in autunno – in cui i Fratelli Musulmani e i Salafiti avevano la maggioranza – e ha regalato il potere legislativo alla Giunta Militare. Ogni cosa congiura, pare, a far sì che l’immediato futuro dell’Egitto si riveli ancora più burrascoso.